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Sindacato e organizzazione operaia: da dove ripartire

Giovanni Iozzoli

1.

Quando si parla in Italia di "crisi del sindacato" – un evergreen dell'indagine politica e sociologica – il fenomeno va correttamente inteso come crisi generale dell'agire sindacale. Tale crisi va inquadrata dentro la fase storica che è stata definita "post-fordista" (categoria abusatissima che usiamo solo per necessità di sintesi) e collocata dentro il paesaggio produttivo e sociale delle metropoli imperialiste odierne. Esiste certo una forma-crisi specifica, tipica della storia sindacale italiana; ma è solo l’aspetto di un processo complessivo. Insomma: chi volesse limitare il dibattito alla "crisi della CGIL” falserebbe in partenza la discussione. La crisi del sindacato va analizzata innanzitutto nelle sue dimensioni generali oltre che come crisi particolare del confederalismo italiano.

2.

La forma sindacato nasce dentro la centralità d'industria e non ha mai trovato forme e modi per ricostituirsi efficacemente dentro agli epocali scenari di ridimensionamento delle grandi concentrazioni operaie, che hanno segnato le aree dominanti e centrali dell’economia mondo. Dalla metà degli anni 70, in tutto l’occidente la tendenza è sempre stata verso il costante de-insediamento delle produzioni manifatturiere e l’erosione della base sociale su cui storicamente si era strutturato ogni tipo di sindacalismo. Recuperare aree di sindacalizzazione nei servizi non è servito a contrastare la perdita di peso politico e lo svilimento di pratiche e memoria di classe, conseguenza della ristrutturazione capitalistica. Il potere sindacale non si conta per numero di tessere ma si pesa nella capacità reale di conflitto e mobilitazione – e questo vale anche per il sindacalismo riformista.

3.

Il caso italiano, dentro questa tendenza generale, ha assunto una sua parabola originale. È in Italia che nasce la figura specifica del Sindacato Confederale generale, un moloch che progressivamente, concentrando risorse e iscritti, conquista margini crescenti di autonomia politica dal tradizionale collateralismo. Questa originale figura sindacal-politica, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, smotta pesantemente verso l'approdo concertativo, che rappresenta l’ultimo stadio della storia confederale e la sua attuale confusa collocazione.

4.

In Italia si è spesso letto questo passaggio verso la concertazione, in termini moralistici o politicistici – il tradimento dei chierici, la moderazione, la complicità, la svendita etc. A mio avviso il dibattito va de-eticizzato, per non dare eccessivo peso alle scelte soggettive dei gruppi dirigenti: perché quasi sempre esse sono il prodotto delle condizioni generali della lotta di classe, non il fattore causale che la guida. Quando la CGIL tra il 92 e il 93 si autocastra e abbraccia il ruolo concertativo, sta inseguendo l'illusione di tamponare la sua crisi di insediamento e di strategia, arroccandosi su un terreno politico-istituzionale: ritagliandosi cioè un qualche ruolo dentro la transizione verso la seconda repubblica. Ma sono le grandi sconfitte storiche accumulate tra il 1980 e il 1984 – dalla “marcia dei quarantamila” al referendum sulla scala mobile – a creare le condizioni per tale epilogo che vede un sindacato traumatizzato e indebolito imboccare quella direzione nefasta e riconfigurare rapidamente funzione, organizzazione e cultura politica. Quindi: è la sconfitta generale della classe operaia italiana – e la sua perdita di peso dentro i processi di crisi/ristrutturazione – a indurre la sua principale espressione sindacale verso la scelta concertativa. In questo passaggio storico c’è opportunismo e tradimento di classe, certo; ma bisogna partire sempre dalle condizioni generali, per capire qualcosa delle scelte soggettive. Del resto, parallelamente alla deriva confederale, all’inizio di quel decennio vanno cambiando drasticamente tutte le coordinate socio-politiche del paese: la forma- Stato sta mutando profondamente, il quadro politico è in rapida e traumatica decantazione, il “partito della classe operaia” non esiste più e i grandi insediamenti industriali – acciaio, chimica, telecomunicazioni – consumano la loro ultima stagione di dismissioni, nelle grandi privatizzazioni guidate da un nuovo ceto tecnocratico la cui maligna egemonia arriva fino ai giorni nostri.

5.

Se il problema del sindacato italiano fosse solo la guida di gruppi dirigenti "venduti" o vili o moderati, paradossalmente la situazione sarebbe migliore: basterebbe sconfiggerli e invertire il senso di marcia, magari usando le macchine organizzative già pronte. Purtroppo, non funziona così – ed è il problema delle sinistre sindacali, che si sono proposte in questo ruolo di leadership alternativa senza mai risultare convincenti o egemoni (se non in una brevissima fase della storia Fiom). Il sindacato confederale non è un dispositivo mal guidato, ma una complessità di relazioni sociali in cui dinamiche contrattuali, obiettivi, ideologie e burocrazie, si intrecciano con la vita concreta delle masse lavoratrici.

Copertina del primo numero di Teiko

Giuseppe Pellizza da Volpedo “Il Quarto Stato” (1901), Galleria d’Arte Moderna di Milano

6.

La crisi dell'agire sindacale è anche crisi del sindacalismo di base. Nella loro dimensione più matura, queste nuove figure del panorama sindacale hanno ormai più di trent'anni – al netto di scissioni e movimenti vari. Tanto "nuove", quindi, non sono più. Certo è che il coraggio e la spinta che hanno impresso ad alcuni segmenti del lavoro sociale, rappresentano un patrimonio prezioso che va raccolto e valorizzato. É stato efficace, in particolare, l’insediamento nei bordi più sfrangiati e selvaggi della filiera produttiva, vedi la logistica o certi pezzi di agroindustria. Ma allora, viene da chiedersi: come mai la secessione silenziosa e continua dai sindacati tradizionali, non premia il sindacalismo di base, più coerente e radicale? Perché il flusso dei delusi non si “sposta a sinistra”? Bella domanda. In generale chi abbandona il sindacato opta per il qualunquismo o l'affiliazione aziendalista – chi ha frequentato gli stabilimenti Fiat dopo il 2010 lo sa. Dopo trent'anni di arretramenti concertativi, se la realtà corrispondesse ai nostri schemini ideologici, i sindacati di base avrebbero dovuto assumere dimensioni di massa che assolutamente oggi non hanno. Da qui il postulato d'inizio: la crisi è di tutti – dei belli e dei brutti – e ci interroghiamo con franchezza su come fare sindacato nel ventunesimo secolo, misurandoci con la complessità del lavoro sociale, oppure siamo condannati a litigarci le spoglie di un’area di sindacalizzati sempre più ristretta e sempre più passiva.

7.

Da dove ripartire? Prioritario è reinsediarsi nei segmenti tradizionali del lavoro industriale. Non per nostalgie vetero-fabbrichiste, ma perché se non riusciamo a ricostruire l’organizzazione operaia dove essa gode di condizioni di omogeneità (relativamente) più stabili, diventa difficile immaginare la ripartenza nei settori più difficili o frammentati. Dopo il 2008 la perdita di potere operaio è stata devastante – anche nella sua dimensione riformista (autorità salariale, influenza delle RSU, controllo sui livelli di sicurezza, deterrenza quotidiana a fronte del comando d’impresa). In riferimento a quegli anni, si può parlare di una terza grande sconfitta – meno eclatante di quelle dell’80 e dell’84, ma altrettanto potente –, ancora una volta passante dallo snodo maledetto della Fiat nell’epoca dell’offensiva di Marchionne. La crisi ha spezzato le reti organizzative tradizionali, ha isolato i delegati, ha terrorizzato le maestranze, ha frantumato il corpo di classe finanche dentro i medesimi capannoni, grazie al gioco sporco degli appalti interni. Ne misuriamo il peso ancora adesso.

8.

Sarà necessario inventare nuove soluzioni organizzative e nuovi approcci vertenziali e contrattuali nelle ampie praterie del lavoro precario. Molti esperimenti di “neo-sindacalismo metropolitano” sono già in atto, promossi da soggetti sindacali diversi, che hanno colto la necessità di “socializzare” l’agire sindacale e lo sciopero. Tutte esperienze da conoscere e studiare. Tenendo presente la lezione maturata dentro la logistica: il miglior veicolo di diffusione delle buone pratiche sindacali è il conflitto. È il conflitto a parlare. Sono il conflitto e una buona contrattazione ad arruolare i proletari e sono poi i proletari a diffondere e difendere un modo diverso di fare sindacato.

9.

Prima o dopo bisognerà confrontarsi anche con il nodo della rappresentanza politica del lavoro, senza la quale la rappresentanza sindacale non può esercitare un eterno ruolo di supplenza. Sappiamo che è un livello di discussione che può apparire lontano dai tempi presenti: ma quello della rappresentanza politica di classe è anche un nodo propriamente sindacale, che prima o dopo si pone a tutti gli operai coscienti che costruiscono organizzazione sui posti di lavoro. Vertenza dopo vertenza, epoca dopo epoca, la domanda sorge spontanea dal basso: qual è lo sbocco politico delle lotte?

10.

Meno centrale è invece il tema da cui, di solito, si parte: a che sindacato bisogna iscriversi? È una domanda mal posta, a cui – con un approccio un po’ da venditori – tutti i sindacati potrebbero accampare le loro buone ragioni di autopromozione (io sono più grosso, io sono più combattivo, io sono più intercategoriale, ecc.). Da qui la prolificazione continua di un micro-sindacalismo spesso settario. Diciamo che oggi la priorità è ricostruire presenza organizzata reale dentro i posti di lavoro – cioè delegati riconosciuti, che abbiano influenza di massa e non si facciano comprare. Questo è il livello minimo da cui ripartire. E in contesti diversi possono essere necessarie o utili affiliazioni diverse, al di là dei nostri desiderata soggettivi. Se l’organizzazione di base esiste davvero, si può immaginare di spostarla su un piano più avanzato, più combattivo, più maturo, ecc… Ma se è una rappresentanza fittizia, simbolica, di nominalismo di sigle, c’è poco da ricavarne, al di là della simpatia o vicinanza a questa o quella organizzazione. L’esempio classico è la GKN: il collettivo operaio esisteva da prima della crisi dello stabilimento; da anni organizzava i lavoratori di quell’azienda ed era una forma originale, strutturata e riconosciuta di rappresentanza. È quella qualità ad aver garantito la faticosa tenuta della vertenza, non il colore della tessera. Se la discussione generale si arena su quali tessere sfilare o infilare nelle tasche di un pugno di sindacalizzati, diventa decisamente poco interessante.

Copertina del primo numero di Teiko

© Il Mattino